Interviste

Caparezza: sulle tracce di un fuggiasco verso la sua libertà

L'ultima corsa di Caparezza prima di un grande cambiamento.

Articolo di
Nicolò Falchi
on
13
-
05
-
2021

Non importa se passano tre o quattro anni tra un suo disco e l’altro. E non importa se durante questo periodo non si sappia assolutamente nulla di quello che faccia. Niente post sui social, niente stories, niente gossip. 



Resta solo un grande silenzio, in attesa della musica. 


Non importa, appunto, perché quando arriva il momento, ovvero quello del rilascio del disco, un pubblico attento e paziente accorre con la valigia in mano pronto per essere trasportato nel prossimo intenso viaggio di Michele Salvemini, in arte Caparezza. 


Con “Exuvia” sono ormai otto i lavori ufficiali dell’artista pugliese, che non smette di stupire e di suscitare interesse per il pubblico italiano, e si può tranquillamente dire che ha concepito il suo disco di gran lunga più ambizioso e impegnativo sotto ogni punto di vista. Si tratta di un lavoro che parta dalla fuga disperata della prigione mentale del precedente disco e che lo catapulta in una selva imprevedibile, tra immaginari felliniani e richiami danteschi.

In "Exuvia" Capa è un fiume in piena di citazioni e punchlines. L'album è un frullatore di emozioni e sentimenti contrastanti in cui sogni, tormenti, paradossi e ansie, si fondono in quello che è un caos organizzato da un fuggiasco in cerca della sua libertà. 


Ho avuto modo di chiacchierare con Caparezza in occasione dell’uscita del suo attesissimo ultimo disco, che è stato accolto con una sorta di “boato virtuale” al momento dell’annuncio. Come era prevedibile, ne è nata una discussione interessante che è rimbalzata su tantissimi temi: dalla scelta dei featuring alla decisione di affrontare il capitolo Mikimix; dal nuovo meridione leghista al rapporto conflittuale coi social; dal suo legame speciale col suo pubblico fino alla sua visione del nuovo panorama del rap italiano. 



La prima curiosità che ho voluto togliermi era riguardo la presenza dei soli due featuring, totalmente sconosciuti per il pubblico italiano. Non ho voluto chiedergli subito il perché della sua scelta, ma avevo curiosità del Caparezza ascoltatore più che artista, e mi interessava sapere quanto è stato difficile trovare qualcosa di interessante, in quella che la selva della produzione musicale, soprattutto in un momento in cui imperano il rap e i suoi derivati. Mi dice che «Tutto questo album è stato faticoso. Che poi è un album che parla strettamente di me, che prende atto che la mia età sta avanzando e sono in un nuova fase. In questa fase però ho la fortuna di essere ancora un ascoltare e di riuscire a sorprendermi delle cose contemporanee. A me piace più il rap, ma sono un ascoltatore di rock, soprattutto di quello europeo. Per esempio i Demob Happy, il cui cantante è nel mio disco, sono una delle mie band rock preferite. Bisogna fare un minimo di ricerca per trovare qualcosa alla mia età». 



Musicalmente il disco è molto difficile da inquadrare. Come suo solito Capa ha spaziato tanto da un genere all’altro, ogni traccia è davvero un mondo musicale a sé stante. Gli chiedo dunque quali sono stati gli ascolti e quali i producer che lo hanno guidato per trovare sound di questo disco.


«Sono un ascoltatore molto distratto e porto questa distrazione dentro l’album, mi dice. Poi continua: «Essendo il producer di me stesso, posso mettere la base al servizio di quello che voglio dire e non viceversa. Avendo accumulato tutti questi anni di vita, avendo ascoltato tanta roba, mi posso permettere di pescare un po’ alla rinfusa nella mia testa quelli che sono i riferimenti, mescolarli e metterli al servizio del testo. Mi fa l’esempio di “Canthology” che è influenzato dal sound lisergico anni '70 dei Pink Floyd, o come in "Contronatura" dove si è ispirato ad alcune colonne sonore di film che avevano delle atmosfere tribali.



All’improvviso mi viene una curiosità. Gli chiedo quale sarebbe il producer o il musicista a cui affiderebbe a scatola chiusa il sound di un suo disco. «Se devo sognare in grande parto da Rick Rubin, che è uno dei miei modelli ed è un producer che ha trattato dall'heavy metal al rap», mi risponde senza pensarci troppo. Poi aggiunge: «se, invece, intendi uno più strettamente rap, ti direi che Duffy, il producer di Leon Faun, che per me è molto bravo. Mi piace moltissimo Dat Boi Dee, che è il producer di J. Lord. C’è stato un periodo che ho ascoltato tanto “Sixteen”, perchè oltre ad avere una narrazione perfetta e un flow che mi piace tantissimo, c’erano quei ritornelli che rallentavano e da producer ho apprezzato molto».


Gli chiedo a questo punto se ha avuto modo di sentire “Obe” di Mace, uno dei producer album più innovativi ed interessanti degli ultimi anni. Mi dice che gli è piaciuto tantissimo, perché, tra i tanti dei produttori usciti ultimamente, è un album che non è collocabile. «Si è fatto un suo viaggio e tutti quelli che hanno partecipato sono riusciti ad aderire a questo viaggio. Ayahuasca è la mia canzone preferita di quell’album» mi rivela.


In attesa della tracklist io ho pensato, forse ingenuamente, che a sto giro ci sarebbe stato un rapper italiano nel disco. Probabilmente era arrivata l’ora, dal momento che nei suoi album i featuring sono sempre stati pochissimi e non c’è mai stata traccia di un rapper italiano. Gli chiedo dunque se c’è stato un momento in cui ha pensato di coinvolgere qualche figura della scena. Prima di tutto Capa ci tiene a puntualizzare che ascolta tanti dei nuovi rapper e con qualcuno di loro è anche in contatto, poi fa alcuni nomi di quelli che apprezza di più.



«Ti dico se vogliamo parlare di rap tecnico, per me Nayt ha un livello pazzesco. Fa degli extrabeat pulitissimi, chiunque abbia un po’ di dimestichezza con l’extrabeat sa quanto è difficile scandire le parole. Ma lui è interessante anche in tracce come “Favolacce”. Poi mi piace molto Rkomi, lui lo sa. E mi piace la narrativa di Madame e la voce di Dani Faiv».



E poi continua:


«Poi se citiamo quelli a cui sono associato, ovvero il calderone dei liricisti, apprezzo Rancore, Mezzosangue, Murubutu e Willie Peyote».

E conclude spiegandomi il perché alla fine non ha optato per una scelta simile:

«Nel mio album non ci sono finiti perché mi faccio un viaggio mio e quindi metto i featuring quando sono funzionali alla traccia. E’ un disco che parla di spaesamento e ricerca, quindi anche i featuring dovevano essere ricercati: nel senso io sono andato a cercarli, non sono stato a badare ad altre logiche».





L’exuvia, come scrive Capa, è la muta dell’insetto, ovvero ciò che rimane del suo corpo dopo aver sviluppato un cambiamento. Questo concetto mi faceva pensare ad un altro suo vecchio brano, “Abiura di me”, in cui gioca sul fatto di rinnegare tutto quello che aveva fatto in precedenza per passare “ad un livello successivo”. A questo punto gli chiedo se c’è qualcosa che, guardando indietro di questi vent’anni di carriera, riesce a vedere senza conflitto e come qualcosa di intoccabile.



Mi risponde senza un secondo di esitazione, in maniera lapidaria: «Mai».


Poi aggiunge «Io vivo un continuo conflitto ed è estenuante. Più passa il tempo e dovrei avere le mie certezza, le spalle larghe dopo tutti questi anni, dove ho avuto anche le mie soddisfazioni, ma tutto alla fine si sgretola. Non ti nascondo che comincio ad avere paura delle interviste, perché non so mai come viene interpretato quello che dico. [...] Io non sono una persona sicura di me, non lo sono mai stata, ed è per quello che faccio musica».



Campione dei ‘90” è una delle tracce simbolo dell’album. Mi interessava partire proprio dal nome, per chiedergli qualcosa riguardo riguardo l’utilizzo dei campionamento degli Statuto (band ska anni’90) e della traccia “Campione”, relativa a Chef, artista pugliese.


 «Io stavo scrivendo questa canzone e mi è venuto in mente questo brano di Chef. Conosco personalmente Alessandro (Chef ndr) e lui aveva questa canzone “Campione”, dove lui dice proprio “Chiamami campione”, e mi son detto: “è assurdo! posso campionare un sample che dice “chiamami campione” - sono entrato in questo loop da quadro di Escher - ma è perfetto!”».


Per quanto riguarda gli Statuto ho deciso di campionarli perché mi ricordava un viaggio che feci a 18 anni verso Milano, era la mia prima volta lì. E una delle cassettine che avevo con me era “Zighidà” degli Statuto».

 



Poi, sempre rimanendo sul titolo del brano, volevo sapere la sua sugli anni ‘90 del Hip Hop italiano. Questo periodo è sempre stato visto attraverso una visione dicotomica: c'è chi li mitizza in maniera incondizionata, definendola appunto la Golden Age. Chi, invece, li vede ancora come un momento in cui rapper erano troppo autoreferenziali e acerbi. Gli chiedo a questo punto che rapporto ha Capa con quel decennio del rap italiano, anche considerando che questo lasso temporale coincide con il momento meno apprezzato della sua carriera.


Mi spiega che negli anni ‘90 erano avantissimi, perchè tutti i protagonisti di quel periodo erano alle prese, per la prima volta, con questa materia. Poi aggiunge:  «Chi pensa che siano acerbi, non fa i conti col fatto che quello che riesce a fare oggi lo deve a quello che è successo nel passato. Noi siamo sempre la risultante di qualcosa. Io li ricordo come un periodo di dischi memorabili: “SXM” dei Sangue Misto o “A volte ritorno” di Lou X sono intoccabili, perché li ho vissuti nel momento giusto. Io ho quindi una visione positiva di quel periodo».




Il disco è una foresta di paradossi. Uno di questi è anche il fatto che all’interno di “Exuvia” la parte più apprezzata della carriera di Capa gli si ritorcono contro già nella prima traccia, mentre in “Campione dei Novanta”, lo sguardo di Capa è quasi benevolo nei confronti di Mikimix, la sua (ex)exuvia di cui Caparezza si è quasi vergognato per anni. Gli chiedo quando ha deciso che questo era il momento giusto per affrontare quest’argomento.



 «Mi fa piacere che tu abbia notato che il paradosso regna sovrano in questo albumi».  Mi spiega che questo era il momento, che si era chiuso un ciclo. Non a caso cita “Mea Culpa”, primo brano della carriera di Caparezza, che parlava proprio della sua precedente esperienza come Mikimix. «Qui ho voluto assolvere il mio passato, nel senso che si possono fare passi falsi. [...] Ognuno ha il suo di percorso. Senza questa esperienza sono sicuro che non sarei riuscito a trovare il coraggio per fare quello che ho fatto in questi anni».


Prypyat, Ucraina


Quando ho letto “Pripyat” sulla tracklist ho pensato subito ad una doppia lettura: da un lato la città fantasma in periodo di lockdown, dall’altra un riferimento a città come Taranto, che vivono nei pressi di un disastro ambientale, proprio come la città dell’ex Unione Sovietica. Il brano non affronta questi argomenti ma è comunque la traccia più politica del disco, con dei cenni evidenti al meridione operaio che ormai è diventato bacino elettorale della Lega. 


“Il tuo capitano ne sa poco più di un bar,

guida con l’iPhone in mano e ci sei tu sul tram.

È arrivato il cambiamento, caro Yusuf/Cat

e i miei parenti sembrano membri del Ku Klux Klan.

Il mio sud cambia pelle, mamba verde,

sono fermo sotto un peso schiaccia tempie, io cariatide.

Il nemico sta sempre più a meridione,

tu sposta il cannone e minaccia terre in Antartide”




Mi interessava capire quanto era stato difficile e sofferente mettere in rima questa situazione attuale. «Quello che è stato più difficile è avere una sensazione e trovare il modo di esprimerla senza parlare direttamente di quella sensazione. Dico appunto “Non parlo al mondo come prima, ma parlo al vuoto come Pripyat”, quindi faccio diventare la realtà circostante come la conseguenza di una mutazione radioattiva. [...] A me veramente piacciono le città fantasma, non so manco perché. Ma se dovessi immaginare un aldilà io lo immaginerei così.


Quindi questi questi parenti che si trasformano in adepti del Ku Klux Klan, il mamba verde sono praticamente dei personaggi all’interno di questa città fantasma? gli chiedo.

«Si, io ragiono molto per immagini, quando mi capita di sentire delle frasi che non mi piacciono, la metabolizzo e le trasformo in audio fumetto» conclude Caparezza.

Ph Credit Albert D'Andrea




In “Azzera Pace” Capa cita testualmente “Io temo il Covid e pure i flashmob e le dirette e l’autocompiacimento”.  E veniamo quindi all’argomento social. Capa è noto per utilizzare i social solo per comunicare la sua musica: il resto del tempo sparisce, non esiste praticamente. Gli chiedo comunque se ha avuto la tentazione di usarli, soprattutto in un periodo come questo dove sono diventati così predominanti. 


Mi dice senza mezzi termini «Perchè io non li so usare. Ti prego di credermi ma io sono veramente persona introversa. Per me buttarmi in pasto a qualcosa è una sofferenza. Non ne sento la necessità. E men che meno in un periodo come quello dove volevo sentire le voci che potevano spiegare quello che stavano succedendo, quelle titolate. Ero continuamente distratto da altre voci che interpretavano quelle parole. Poi aggiunge «Io tendo a sparire, sono qui perché ho tirato fuori un album e mi piace spiegare quello che ho fatto. Ma dal momento che questo svanisce, non ho voglia di dire cosa faccio nella vita o cosa penso se non alle persone vicine a me. Questa è libertà. Per me la libertà è sparire».



A questo punto volevo aprire un altro argomento che è quello del pubblico di Caparezza, il quale rappresenta un unicum (o quasi) nel panorama musicale musicale. In un'era di “skippattori” seriali, di soglia delle attenzioni sempre più bassa, Capa ha la fortuna di aver un pubblico molto attento ad analizzare nel profondo tutto ciò che concerne la la sua produzione artistica. Basta vedere la pagina di Genius, dove la traccia “La Scelta” è totalmente evidenziata e ogni barra ha una spiegazione molto dettagliata sul suo significato. Gli chiedo se è partito da questo presupposto, ovvero dalla fiducia e la consapevolezza di avere una fanbase così attenta e curiosa, per spingersi così oltre nella costruzione di album molto denso dal punto di vista dei significati.



«Loro apprezzano me perché sanno che faccio quello che mi piace, e quindi non si aspettano che vada incontro ad un' aspettativa. I temi che sto trattando sono sempre più personali, io cerco di non fare citazionismo spicciolo: non voglio fare la rima con la citazione sul poeta per fare quello colto che non sono. Io se mi imbatto in un documentario dove si parla di qualcuno e questo qualcuno mi rimane in mente per una caratteristica, se mi serve per una rima, lo tiro fuori».

Poi continua:


I mie fan a me sono molto simpatici perché sono come me. Non è gente che sbraita, sono quasi orgoglioso di questo. Lo interrompo per dirgli che, avendo visto alcuni suoi concerti, ho notato che molti sono anche giovanissimi e molti di loro non ascoltano rap, ma altri generi più vicini al rock e al metal. Lui mi spiega che questo è dato dai moltissimi live che ha fatto con la band e probabilmente proprio per questo il fan del rock si è divertito e ha cominciato a seguirlo. «Penso che tante persone che seguivano i Rage Against The Machine non erano super fan di tutto quello che gravitava nel mondo del hip-hop. E poi mi fa l'esempio di una collaborazione che all'epoca apprezzo molto come quella tra i Public Enemy e gli Anthrax.



Vedendo le interviste che Caparezza aveva rilasciato all’epoca di “Prisoner 709” molti gli chiedevano cosa pensasse della trap. Lui aveva risposto in maniera, diciamo attendista, che si sarebbe aspettato un’evoluzione di questo genere. Ora che sono passati vari anni e tanta carne è stata messa al fuoco, mi faceva piacere chiedergli se aveva visto un’evoluzione significativa di questo genere e cosa ne pensasse dopo vari anni.


Mi spiega che lui non ha mai cambiato posizione che «ha un atteggiamento di tenerezza verso ogni persona che comincia a fare musica. Poi continua: «Mi rendo conto che la trap è un fenomeno che alla mia età si può capire marginalmente ma ha dato una svegliata a tutto. [...] Non si può demonizzare un genere, quando ascoltavo Lil Peep mi sembrava una cosa che sì attingesse da quel mondo lì, ma che andava in un'altra direzione: sentivo il grunge, anche i The Cure, dei ritornelli che potevano essere anche di Kurt Cobain. Tutto si evolve ed è naturale che dopo questo fenomeno arriverà una nuova generazione che metterà in discussione tutto: è un ciclo continuo».



Venendo alla “Certa” che è una delle mie preferite del disco,  ero curioso di sapere qual era la genesi di questo pezzo, dal momento che ha rivelato che è il primo pezzo ad essere stato scritto ed è uno dei tanti paradossi del disco: il primo seme dell’album parte appunto da un tema come la morte, il punto finale della nostra esistenza. La storia è curiosa perchè Capa racconta di aver proprio sognato la melodia del brano, durante un viaggio in Scozia nel 2018, e di averla poi registrata attraverso un vocale nel cuore della notte.



 «Io ce l’ho sempre dentro questa cosa della morte, anche in Habemus Capa inscenavo il mio funerale, io non ho paura di parlarne. Io faccio i conti con questa certezza ogni giorno. [...] Ma non avevo mai avuto modo di raccontarla. Può sembrare  una cazzata ma è la pura verità, che mi cascassero tutti i capelli in questo momento! ho sognato proprio questa melodia - e non è la prima volta che mi accade, era successo con Non mettere le mani in tasca - e l’ho registrata nel cuore della notte con un vocale. Dopodiché è iniziato un lunghissimo processo di metabolizzazione dell’argomento che è molto delicato. Ho pensato a questa morte come “motivatrice” e ci sono due artisti che hanno condizionato l'apparato di questa canzone: uno è un rapper Token, l’altro è Arca, produttore di Björk».Mi spiega a questo punto che la struttura è tutta giocata sul contrasto “carezza/scossone”, dentro ci son finiti tutti gli elementi dell’album, come se fosse un riassunto di tutto: il coro della chiesa, i fiati, la sua voce normale e il cantato in varie forme, perchè - conclude - «se si parla di passaggi di fase è inevitabile ci sia anche questo».



L’intervista volge ormai al termine, ma prima di concludere ho un'ultima curiosità. Ripenso alla sua precedente exuvia, ovvero Mikimix, che lui ha definito la sua exuvia più plateale. Gli chiedo quindi se la prossima trasformazione di Capa sarà ancora più plateale.


Qualche secondo di silenzio, accenno di risata, e alla fine Caparezza mi risponde «Ebbene si».


Con questo velo di mistero si conclude quindi la nostra lunga chiacchierata. E in attesa della nuova sorpresa che ha in serbo per noi Caparezza, lo ringraziamo per la sua disponibilità e vi consigliamo caldamente di ascoltare il suo album.




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Autore:
Nicolò Falchi
Autore, Copywriter, con un Master in "Storia e Comunicazione", membro della SISS. Attualmente a Barcellona.

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