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''2001'' di Dr.Dre: quando sono i difetti a raccontare la grandezza di un disco

Un disco che è reso forte ed attuale dai suoi difetti, anche a distanza di vent’anni.

Articolo di
Damir Ivic
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2020

Ormai sono più di vent’anni. Sì, sono più di vent’anni che “2001” di Dre è uscito (non fatevi ingannare dal titolo: la release ufficiale è datata 1999). Il che significa anche una cosa: per molti di voi che state leggendo – quasi tutti, considerata l’età media dell’appassionato di hip hop – “2001” è un disco che non è mai esistito, se non come “recupero a posteriori”, per chi insomma aveva voglia di scavare un po’ nella storia della musica rap per fare propri i caposaldi (…e capire, così, meglio la faccenda: perché se ascolti rap come una ragazzina di dieci anni può ascoltare Ariana Grande, con lo stesso piglio e la stessa non-volontà di approfondire, forse tu all’hip hop servi solo per fare fatturato, ma non per migliorarlo. No problem, basta saperlo).

E' un peccato questo, è un peccato non averlo “vissuto”. E’ un peccato perché “2001” può essere pienamente capito ed apprezzato solo se lo si ricontestualizza nel momento storico in cui è uscito: uno di quei dischi che ha fatto in quegli anni ciò che oggi è normale (e all’epoca era, invece, coraggioso e quasi oltraggioso). Tanta roba, davvero. Ma visto che la macchina del tempo esiste, e visto che non è che ne capiscano di musica solo i quarantenni e i cinquantenni (anzi: spesso sono tristemente sclerotizzati nel loro mondo e diventano inutili, rancorosi pesi morti cerebrali), proviamo a seguire un’altra vita. Proviamo cioè a riannodare i fili – perché ce ne sono più d’uno – tra ciò che ha reso grandissimo un disco come “2001” e ciò che sta facendo la fortuna del rap oggi, nel 2020, non più solo fra gli appassionati di genere ma con una trasversalità prima inimmaginabile (ovvero: oggi qualunque wannabe stellina televisiva di serie B e la parrucchiera che gli fa settimanalmente le mèches sa chi sono Ghali o Sfera Ebbasta, gli equivalenti di vent’anni fa era tanto se sapevano che il rap era “…ah sì, quella roba di Jovanotti”).

Ascoltatelo, “2001”. Riascoltatelo. Ciò che deve saltare prima di tutto all’orecchio è la parte musicale. Contrariamente al grosso della storia del decennio musicale di cui questo disco faceva parte non era un trionfo del campionamento o, altra faccia della stessa medaglia, un tripudio di quel G-Funk che rese grande la West Coast all’inizio. Dre, con una leadership maniacale sul progetto nel suo complesso, impresse una direzione musicale ben precisa che aveva una regola: restare eleganti, coinvolgenti e comunicativi, ma tirando giù le cose all’osso. Essenza. Essenza pura. E non l’essenza data dal semplice campionamento (come si è fatta per gran parte degli anni ’90, zona East Coast), ma un’essenza “nuova” che nasceva sì dal già citato G-Funk e dal coinvolgimento di strumentisti in carne ed ossa, da melodie, ganci soul così efficaci da esser pop, ma il tutto veniva brutalmente “addomesticato” da Dre. “Voglio solo l’essenziale”, sembra dire in ogni singolo momento sonoro dell’album. E lo ottiene.

L’”essenziale” se ci si pensa bene è anche ciò che, con l’avvento delle sonorità trap, ha rivoluzionato l’hip hop di questi anni, quello del presente. La trap è stata fin dall’inizio una musica di pochi, pochissimi elementi. E’ diventata grande e popolare così. Poi certo, ovvio, le cose cambiano, perfino in Italia abbiamo avuto una evoluzione “barocca” con Tha Supreme (o quella “compromissoria” dell’andare incontro ai gusti ed alle esigenze del pop), ma il motivo per cui la trap – parliamo sempre di musica – ha rivoluzionato il panorama recente è probabilmente perché è riuscita ad ottenere il massimo risultato possibile col minor numero di elementi. Dre, nel 1999, fece lo stesso. Aveva il mondo ai suoi piedi, in quel momento; poteva mettere nella sua musica di tutto di più; ebbe la lucidità di affidarsi come collaboratori a un paio di persone ben scelte (Scott Storch, già tastierista per i Roots, e Mike Elizondo, un mestierante del pop-rock di alta qualità) e di metterci dentro il meno possibile (stando attento che quel poco fosse però tremendamente efficace). Lo stesso ha fatto Kanye, dieci anni più tardi, nell’andare all’essenza delle “cose” sonore, diventando anche lui un grandissimo, un vero e proprio game-changer, ma lì forse più per egomania che per scelta lucida. La scarnezza di Kanye da un certo momento in avanti più che scelta intenzionale e strategica è sembrata essere la traiettoria di un tipo un po’ strano e che fa le cose a modo suo. Peraltro, ha funzionato pure per lui. Ma ok, non divaghiamo. Torniamo al punto.

In tutta questa operazione, Dre non ha creato niente di nuovo. Non ha “inventato” un suono; non ha rivoluzionato un panorama musicale; non ha stravolto i canoni di alcunché. Esattamente come oggi il rap non sta rivoluzionando la musica, ma è solo attento a lavorare con attenzione elementi già esistenti (suoi, o mutuati dalla dance o dal pop) rimescolandoli nei casi migliori e più interessanti in modo strano. “2001” non è geniale. Non è pazzesco. Non è imprevedibile. Lo fosse, paradossalmente varrebbe di meno. Sarebbe meno incisivo, e decisivo.

Sì. Perché il vero valore di “2001” sta nel rassicurare, riaffermare. Dre prima di tutto vuole rassicurare+riaffermare se stesso: perché in quegli anni si diceva che il mogul californiano stesse perdendo mordente, che era ormai un trentenne che stava iniziando a mangiare la polvere ed arrancare, che forse era il caso pensasse solo a fare il produttore e lo scopritore di nuovi talenti ormai molto più bravi di lui (…sì, ci stiamo riferendo ad Eminem e a quello che ad un certo punto si era iniziato a dire, fra la critica musicale e gli appassionati). “Ah sì, dite così? Allora al diavolo, sentite un po’ qua, stronzi”. Non ci sono colpi d’ala, sorprese, innovazioni nel rap di Dre, sia come flow che come testi. Zero. Tutti gli sforzi sono concentrati su un’unica missione: giocare a rinforzare il proprio personaggio. Non quello che si è veramente; ma il personaggio che ci si è costruito addosso. Ai limiti del personaggio da fumetto. Ai limiti.

Con altri rapper, scelte del genere portano in breve tempo al declino, all’irrilevanza; essere sinceri con se stessi è il primo passo per emergere e colpire davvero l’attenzione del pubblico. Era così in passato, è così oggi e – speriamo – sarà così anche domani. Ma nel caso di Dre e di “2001” si è rivelata invece la cosa giusta da fare. Certe sue liriche le leggi, le traduci e ti sembrano stupide ostentazioni di machismo fuori tempo massimo, ma la verità è che sono dette al microfono in modo tale, con una sicurezza tale – ai limiti della strafottenza annoiata – che non puoi non restarne affascinato, non puoi non considerare tutto questo come “perfetto”, come credibile (anche, razionalmente pensando, capisci che è “fumettoso”, capisci che è per lo più fiction). Sarebbe stato meno credibile, Dre, se avesse giocato a fare l’innovatore sofisticato, se si fosse messo in testa di rivoluzionario di nuovo il mondo dell’hip hop in salsa West Coast (cosa che aveva già fatto; perché sbattersi per farlo di nuovo, col rischio invece di scottarsi, farsi male e perdere tutto il carisma?).

Insomma, è un caso abbastanza raro, “2001”. Un disco che è reso forte dai suoi difetti. E, altra stranezza, sono proprio i suoi (apparenti) difetti a renderlo incredibilmente attuale anche vent’anni e passa più tardi (oltre all’incredibile lavoro “industriale” che c’è dietro: l’uso massico di ghost writer di enorme peso come Nas, Jay-Z, un giovanissimo Eminem, o il tour iper-spettacolare che ne ha seguito l’uscita). E questo al di là di tutta la letteratura su Dre negli anni ‘90 e sui suoi guai con la legge, sui suoi successi finanziari, sulle faide legali con Suge Knight attorno al nome da usare per l’album e alla titolarità del termine “The Chronic” (titolo dell’epocale lavoro di debutto di Dre solita, sette anni prima, 1992), al di là di tutto questo; e anche al di là delle varie considerazioni che si possono fare su quanto abbia senso e sia sostenibile, oggi, un linguaggio così misogino come quello di Dre nel 1999, oppure su cosa abbia significato il gangsta rap (di cui “2001” è la declinazione più matura e, al tempo stesso, forse l’inizio del declino).

Questi ultimi sono aspetti su cui si è dibattuto miliardi di volte parlando di rap e, beh, probabilmente lo si continuerà a fare; ed è giusto farlo, perché arrendersi all’idea che il rap debba per forza il “vestito” di chi fa il troglodita e l’eroe del ghetto è una idea tanto stupida quanto quella, uguale e contraria, di chi crede che il rap debba essere solo rivoluzione e messaggi progressisti di sinistra. Il rap è “mobile”. Come del resto lo sono tutte le arti. E dal punto di vista di lucidità artistica, di capacità di mettere a fuoco gli elementi che fanno la differenza e colpiscono l’attenzione (una delle ragioni fondanti dell’arte, anche se non l’unica), “2001” è realmente un capolavoro. Da riascoltare ancora oggi. Questo conta.

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Autore:
Damir Ivic
Wanderer.

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